Prendo spunto da un aforisma di J. J. Rousseau: «la gioia suprema consiste nell’essere soddisfatti di se stessi». Aggiungo io: a condizione di aderire a ciò che siamo.
Figlia di genitori “anziani”, che probabilmente non avrebbero voluto altri eredi, alla mia nascita decretarono che il male minore sarebbe stato quello di trasformarmi nel loro bastone della vecchiaia. Questa decisione mi condizionò al punto che da bimba quando mi veniva posta la domanda: «che lavoro farai da grande?» rispondevo «il bastone della vecchiaia!». Così investita di tale responsabilità decisi che per diventare bastone avrei dovuto farmi abitare da un albero: scelsi il faggio. Nel “rifugio” del mio letto iniziarono le prime visualizzazioni di me, albera dalle estreme radici, lunghi rami, folte chiome che quasi andavano a toccare cielo e nuvole, allietata dal canto degli uccellini che su di me costruivano nidi componendo armonie che io seguivo con il cuore. Respiravo la vita attraverso le foglie, abbandonandole senza malinconia al ritmo delle stagioni, rimanendo spoglia senza pudore o paura, diventando parte delle storie di chi, seduto ai miei piedi, si confidava, condivideva emozioni e sensazioni.
Cominciò il periodo del mio essere fortemente abitata dal mondo che mi circondava, con caratteristiche di adattatività non proprie di una bambina. Mi lasciavo abitare dagli swing suonati al pianoforte dal papà, dai pezzi jazz interpretati con il clarinetto o il sax da mio fratello, convinta che sarei diventata la loro vocalist preferita. Mi abitavano le storie di fantasmi, orchi che la nonna materna mi raccontava e i protagonisti di queste avventure venivano a trovarmi anche durante il sonno.
Lasciavo che le storie “degli altri” entrassero a far parte della mia memoria finché le sofferenze, soprattutto quelle più dolorose, cominciarono a penetrare nella mia linfa mentre mi sentivo ripetere che la mia corteccia era perfettamente idonea a sopportare qualsiasi condizione. Piano piano i miei rami iniziarono a indebolirsi, qualcuno seccò spezzandosi e mi accorsi che, forse, sarei sparita senza averne paura. Un giorno, un vento forte venuto da chissà dove, penetrò in ogni mio spazio con una chiave che non ero mai riuscita a trovare e aprendo la porta più profonda dell’energia che mi abitava, mi scaraventò letteralmente nel vortice del caos. Pensai di frantumarmi in mille pezzi scagliati nello spazio, perdendo la sensazione fisica di quella che pensavo essere me stessa. Sotto le mie fronde, umani seduti sull’erba ad ascoltare musica, mi guardavano senza vedermi e senza accorgersi del tumulto che era in atto.
Abbandonandomi spontaneamente a tutto quello che stava accadendo, compresi che quell’albero mi stava ripartorendo e che l’Aletheia si stava manifestando, proprio grazie all’impellente separazione legata alle mie necessità o egotiche forme di gratificazione. Compresi che il mondo circostante mi aveva mantenuto e attratta nell‘illusione e in quella parte di mezza donna e mezza albero, avevo identificato la mia soluzione.
So che la mia nascita precedente venne caratterizzata dall’utilizzo del forcipe e quell’incedere avanti/indietro, quella sensazione di luce/buio, sentire di essere accolta ma anche respinta, segnò le tappe più importanti e conflittuali della mia esistenza..
Scoprendo di essere il legno di cui ero fatta, il ramo su cui stavo seduta e che la mia psiche ero solo uno spettro olografico che rispecchiava qualsiasi forma, ho cominciato ad accettare tutto quello che la vita mi presentava, in un caleidoscopico universo fatto di frequenze…. e da allora mi trasformo, morendo un po’ alla volta perché così è l’abitare della vita.
Donatella Galli